stefano giaccone e claudio villiot
"corpi sparsi"
   

il cd "corpi sparsi" offre la registrazione sonora dello spettacolo omonimo che stefano giaccone e claudio villiot (compagni di viaggio sulla strada del dopo-franti dai tempi di environs) hanno portato in giro per piccoli centri e teatri improvvisati tra la primavera del 1995 e quella del 1997. una scena sonora che risulta dalla mescolanza di testi letti / recitati ai quali si intreccia e si sovrappone la musica: pianoforte (più propriamente "tastiere") e sax da soli e anche assieme che seguono linee d'espressione melodica accostabili a riferimenti blues o jazz.
i testi sono scritti da stefano con il suo stile graffiante e "americano". tranne che per una versione di "dove" (canzone già presente nell'album degli ishi) e per alcuni brevi passaggi preesistenti scritti da claudio villiot, la musica dello spettacolo e quindi del cd è del tutto spontanea. è musica improvvisa ed improvvisata, non è scritta né premeditata: nonostante questo, è musica che non si veste d'inaccessibilità e sa rimanere libera. è musica che al momento giusto si sa mettere da parte per far luce alle parole nude, per poi inondare a sorpresa anche i silenzi che distanziano le diverse parti del testo. con una semplicità disarmante, stefano e claudio hanno fornito una lista di fonti d'ispirazione musicale che somiglia ad un arcobaleno: archie shepp, ornette coleman, dollar brand, bud powell, arie della tradizione popolare piemontese, un frammento da "mikrokosmos" di béla bartok.
una prima edizione di questo cd era uscita nel 1998 a cura dell’indie ligure on/off in una tiratura limitata e presto esaurita. l'
esecuzione in studio desiderava andare incontro alle numerose richieste di poter riascoltare le musiche e i testi in un contesto ...casalingo, e alla volontà degli autori di curare questo lavoro con maggiore calma e mezzi tecnici, pur nel rispetto "filologico" dello spettacolo.



corpi sparsi
estratti
 
   

la scena.

un tavolino con sopra un mappamondo. dal soffitto scende un filo da pesca al quale è appeso un cappello anni ‘30, a circa due metri d’altezza. un abat-jour e un leggio.
dal buio, si accende la luce.

la regione abitata e deserta
la regione sommersa
la regione del canto
la regione della bestia.

l’evidenza dei corpi sparsi non è una evidenza, ma qualcosa come l’alone del rossetto o le ditate sullo specchio del bagno, che saltano fuori nel vapore della doccia bollente.
l’evidenza dell’architettura casuale di ciò che non ho avuto, di ciò che non ho saputo, di ciò che non sono stato, utopie sepolte, il ricordare amaro. come quella volta che, comprando un brutto libro da regalare ad un natale, la pelle mi si è messa a sudare. come quel primo maggio, vent’anni prima, a san sebastian, donostia. o tipo la pietra infame che rompe alla vanga il filo, quelle vertebre preistoriche di dinosauro con sopra i numerini messe dentro scatole di legno con i numerini e qui ci vuole un bel disegno, un bel immaginarlo lì a brucare, grande come un transatlantico, nel campo di periferia, tra le lavatrici buttate, poltrone sfondate, materassi e goldoni, gatti morti.
la strada per bassora è una linea kilometrica di camion e carri distrutti, bruciati. si capisce dai denti che era un soldato, un uomo. dai denti, perché restano bianchi e distinti sullo sfondo nerobruno carbonizzato.

io vorrei sentire un po’ meglio, ma il rilievo dei corpi sparsi è in fondo modesto.

   
il futuro ha divorato il mio bambino.

eravamo eredi di parole che non volevamo più sentire.
eravamo attori di palchi che non volevamo più calcare.
eravamo figli della strada non segnata.
padri e madri della terra più arsa.
fratelli di ognuno che fosse ribelle per odio, fame o gioco.
sorelle delle voci più pure delle lingue più roche.
il mio bambino oggi sarebbe il bambino dei miei figli e giocherebbe con loro.
ho perso il mio bambino: venduto al ricco turista, rapito,
lo hanno chiuso in collegio, nel carcere, nella corsia di un pronto soccorso.
il mio bambino è diventato cieco, vive nella strada, muore d'eroina.
il mio bambino va nelle loro scuole
ascolta le loro parole alla televisione
respira i nostri motori.
il mio bambino è pulito e ben vestito, come noi.
il futuro ha divorato il mio bambino.
dove.

accesa la città, spenta anche l’insegna
c’è aria di sapere dove andare
ma già il vestirsi non è facile
e il nostro caffè si brucia, come sempre, un poco
si esce in fretta dopo cena
non resisti con quell’ansia dentro che non fa stare in nessun posto
appoggiati ad una vetrina o in un bar
non sappiamo dove mettere le mani
mentre guardiamo le luci senza pace dei semafori spenti
non alziamo lo sguardo sulle voci attorno
ma con le orecchie registriamo anche il più piccolo cambio di ritmo
sarà che ci è sempre piaciuto di più aspettare che gettare le lune allo sbaraglio
e ci si muove lenti verso un’uscita
le gambe vanno da sole su per i muri
e controlliamo i gesti ma non i pensieri
questa la fatica
poi giù per me scale sui bordi
orme sempre più profonde
e in questo essere dritti e storti ci riconosciamo
stiamo nelle nostre canzoni che non ci bastano mai
anche per madri stanche
le mani stringono forte
ma nelle tasche non si trova più il caldo che sentivo alle guance nel nostro carnevale
dove cercare con le mani cieche un gettone per chiamare
o la porta d’un treno per andare o tornare.
   

quando sono morto e rinato.

il peggiore dei temporali si era abbattuto sulla città, verso il tramonto. dalle due del pomeriggio tutti coloro che, per lavoro, compere o passare il tempo s’aggiravano per le strade, aspettavano quel temporale. fu però più breve del previsto ma più intenso. previsioni medie s’intende: quelle che nell’uscire dai bar si potevano sentire intercalate alle frasi, dette per dire, che si dicono nei bar pomeridiani.
l’estate quasi terminata, stancamente sommava giorno dopo giorno il riavvicinarsi di un nuovo settembre, come riprendere un discorso interrotto da una molletta che cade da un balcone.
in fondo sembrava vita vera, lo scorrere naturale della città, quartiere madonna di campagna. fuori da ogni ambizione turistica, d’importanza di qualsivoglia natura, fuori anche dagli scenari decisivi del paese, in quegli anni a metà tra il dopoguerra e la mirafiori occupata nel ‘69.
nemmeno si poteva dire: povertà. qualche televisione faceva mostra di sé nei bar, tra i bicchieri di rosso, le mosche e il tuttosport. le 600 erano molte, lucide, il giro d’italia sarebbe passato vicino quell’anno.
ora l’aria era calda del vapore che dall’asfalto saliva tra le case. la partita di pallone al campetto, interrotta dal nubifragio, non potè ricominciare. era ora di cena. salendo le scale in tutta fretta il frastuono delle radio inondava il palazzo, coprendo quasi la voce di mia madre che prometteva che ora avrei sentito mio padre.
così tra una cucchiaiata e l’altra, oltre la finestra il cielo che inscuriva, nell’umido fresco dell’aria il gridare delle rondini a caccia sopra i cortili svuotati dal sacro rito della cena, ecco lì mi mancò un respiro. saltai un battito del cuore, smarrii il filo regolare dei profili, dei nomi, dei significati.
da allora, ogni tanto, senza affannarmi, mi chiedo cosa fu. da allora, come un involontario batter di ciglia, come un singhiozzo che passa come arriva, quel cielo sopra la città mi segue riflesso negli occhi degli operai stanchi sui tram, nei vetri degli ospedali, nell’acqua del po sotto le colline, immobile, come l’adolescenza.
cerco quel battito perduto perché da allora ricordo più l’ombra degli alberi, degli alberi. se non fosse piovuto quella sera, avrei forse segnato un gol e ritardato la cena di quel tanto da respirare tutti i respiri, contare il quattro dopo il tre.

com’era fresca quella serata.

   

canzone 3 (roma).

gennaio ‘95
freddo nelle ossa della testa
freddo nello stomaco del cuore
stanchezza in un alloggio di roma
viene il momento che il senso dell’incompiutezza
del perdersi irrisolvibile nel lavandino
di ogni goccia di tempo diventa fisicamente doloroso
penetrante come il suono di bassa intonazione
una sirena del passato tipo film bianconero anni ‘50
questa spossante sorda vibrazione di gong
ramifica nel cielo gelido al tramonto tra i palazzi di zona salaria
nulla per nulla di nulla di msi vince manifesti polizia polacchi pizzeria
e diventa solida la sconclusionata traiettoria di una vita vissuta
graffiata con le ginocchia sull'asfalto
dedicata a canzoni che non sono bastate né lo potevano
cari lalli e giovanni

sperduti cantori nel mio walkman
walk alone be alone be bad be dead

ora posso sfogliare svogliato l'album di mille palchi
odori di cesso
voglia di sboccare
nel grande cosmo di facce ricordate
mani strette al mattino
parole che marciscono tra i denti
saccoapelo arrotolato
e il dono lo sento nascere a poco a poco
dallo stagno inquinato dei tentativi più luccicanti
in una vita spesa a cantare qualche amore qualche bella rima
e troiate di stucco che casca tra i mille compromessi di fianco
del pavimento gelido sotto i miei piedi
stivati fuorimoda qui di fianco
e gira il mondo che è girato sempre
mentre io ascolto
il mio dono
nel porcodio più bestiale che sale dai corsi di tutta roma
ascolto
il mio dono
il silenzio, silenzio, silenzio
chiuso tra le mani che premo alle orecchie
per lasciarvi fuori
parole
melodie e automobili sul grande raccordo anulare
che girate girate girate girate girate

a circa dieci anni sono stato mandato al catechismo, per prepararmi alla cresima.

ci venne dato un libriccino con delle illustrazioni e dei commenti, ma ricordo in modo particolare una delle prime di quelle pagine: una coppia di persone, lui teneva per mano un bambino e con l’altro braccio si teneva vicino alla donna, sua moglie.

di fronte a loro avevano un campo arato, all’orizzonte qualche albero, una celeste nuvolaglia nella quale s’intravvedeva una vaga silhouette. una barba, due occhi scuri e profondi.

ai loro piedi una sottile piantina verde con qualche fogliolina. poco più in là, un grosso albero frondoso, dal tronco bruno.

la scritta non la ricordo, ma il disegno suggeriva una metafora sulla vita, il nascere, il diventare adulti e forti.

ci sono stati giorni che guardavo le nuvole passare, dal ponte di una nave oppure seduto lungo un torrente in alta montagna.

ho pensato che potessero essere le stesse, stessa forma e altezza nel cielo, proprio quelle passate quando sulla terra non c’erano che oceani e vulcani e poi sopra le barche dei fenici, di ulisse, sopra la testa di galileo o sopra hiroshima oppure, viste dal lato opposto, da neil armstrong sull’apollo.

ho cercato anche d’immaginare le isole greche, l’irlanda e la sardegna prima che fossero raccolte le pietre per fare tutti quei muretti e liberare il terreno per dare un po’ d’erba alle capre.
 

dall’aereoporto di cagliari, verso norbello, l’auto filava.

io guardavo fuori, c’era un sole tiepido di primo mattino e mi sentivo strano: sceso da un aereo, caricato su una bella macchina con l’aria condizionata, alla sera avevo un concerto.

il vento aveva raccolto sparsi ciuffi di lana, grumi di lana e sterpaglia, brandelli di giornali e buste di plastica, che ora decoravano sventolando le punte acuminate e arrugginite del filo spinato.

i cartelli indicavano paesi che non si vedevano mai, nascosti sulla cima di colline brulle e deserte.

la storia di queste due donne è rimasta impigliata nella raccolta di ritagli, foto, canzoni che s’accumula nel mio cassetto, da un sacco di tempo.

la prima: da sola in una cascina in montagna, 1700, alto canavese. aspetta il ritorno del suo uomo. e, tra le ombre della notte, cerca di riconoscerlo.

la seconda: alabama, anni ‘50, si ritrova, sola, a volere un posto tra le donne bianche e gli uomini bianchi e scopre che nel suo semplice gesto s’annida una storia di lotta e sofferenza di migliaia di anni e milioni di donne e di uomini, come lei.

 

[ritorna alla pagina principale / back to main page]